ANALISI del libro: IL LUPO DELLA STEPPA di HERMANN HESSE

A cura di Sofia Sebastianutti

Il romanzo di Herman Hesse è sì complesso, ma anche liberatorio. Il protagonista è un uomo in contrasto con il suo tempo, che vive un forte conflitto interno alla sua personalità. Pertanto, chiunque si confronti con questa lettura, dapprima vi troverà un lato oscuro, di crisi e disperazione, ma in seguito vi troverà il rimedio giusto, la riconciliazione, il tentativo di guarigione. Poiché ognuno di noi in quanto essere umano è sottoposto a momenti difficili e di crisi, la lettura del romanzo è fortemente consigliata.

Harry Haller era un uomo non molto alto, con i capelli molto corti e ormai brizzolati: erano loro a tradire la sua età.  La cosa che più colpiva chiunque lo osservasse era la sua faccia, “una faccia forse un po’ singolare e anche triste, ma vigile, piena di pensiero e tormento spirituale.” Era piuttosto malandato, faceva fatica a camminare e nel complesso la sua immagine suscitava simpatia nel cuore di chi lo incontrava. Forse per questa ragione ottenne subito di essere ospitato nella casa borghese dove chiese una stanza in affitto. Voleva rimanere in città per alcuni mesi, “per frequentare le biblioteche e ammirare le antichità.” Era chiaramente un uomo di cultura, con “una vita piena di interessi spirituali, ma disordinata e traviata.” Il suo stile di vita non era quello regolare, sebbene fosse anch’egli figlio di mamma e anche sua mamma fosse “una buona borghese e coltivava i fiori e badava alle stanze e alle scale, ai mobili e alle tendine, e si sforzava di dare alla casa e alla vita la massima pulizia e accuratezza, il massimo ordine.” Tutto ciò era profondamente in contrasto con Harry e la sua vita “un po’ in disparte, un po’ ai margini”: egli riteneva il mondo borghese un universo di cose che non capiva a pieno, ma per cui provava un sincero e profondo sentimento di ammirazione, un senso di nostalgia: vivere in vere case borghesi era un suo “vecchio sentimentalismo”. Egli trovava il suo tempo “così privo di spirito” tanto da chiedersi: “come potrei non essere un lupo della steppa, un sordido anacoreta in un mondo del quale non condivido alcuna meta, delle cui gioie non vi è alcuna che mi arrida?”. Perché questo Harry pensava di essere, un lupo della steppa, a cui non piacevano orchestrine di dame, varietà, cinema e danze: quelle erano gioie “per tutti, per gente normale”, mentre lui era “un animale sperduto in un mondo a lui estraneo e incomprensibile, che non trova più patria, l’aria, il nutrimento.” Una sera, dopo essere uscito dall’osteria e avere schivato a dovere locali e vita mondana, si fermò davanti ad un antico muro, “bello e silenzioso”, dove vide un uomo con un bizzarro manifesto, che recitava le seguenti parole: “Serata anarchica! Teatro magico! Ingresso libero non per tutti!”. Fu quello stesso uomo a consegnargli un libretto, che si ritrovò tra le mani quando, una volta tornato a casa, si tolse il soprabito. Il titolo era: Dissertazione sul lupo della steppa. Soltanto per pazzi. Harry lo lesse, parlava proprio di lui. Quello che trovò all’interno di quelle pagine, oltrepassava di gran lunga la sua immaginazione: era un superamento dell’idea che Harry stesso aveva di sé, un superamento della dualità che sempre aveva pensato fosse la base e la caratteristica della sua anima. In quanto lupo della steppa infatti, egli aveva sempre pensato di avere due nature, una umana e una lupina, e sapeva che queste “vivevano in continua inimicizia mortale,” rendendo la sua vita “un guaio”.  La Dissertazione tuttavia rendeva chiaro un concetto: per Harry e per tutti gli altri lupi della steppa, c’era la possibilità di salvezza: l’umorismo. È infatti grazie all’umorismo, ovvero “la stupenda invenzione di chi si vede troncata la vocazione alle cose più grandi”, che il lupo della steppa “rimarrebbe per sempre nel mondo borghese ma i suoi dolori sarebbero sopportabili, diverrebbero fecondi.” Per arrivare a questo risultato però, Harry “dovrebbe vedere il caos nella propria anima e arrivare finalmente a una perfetta coscienza di sé”. Tuttavia nulla lo spaventava di più di un incontro con se stesso. La Dissertazione svelava anche un’altra verità: Harry “non è capace di vedere che in lui vivono anche altre cose oltre al lupo, che non tutto è lupo quel che morde, che vi sono in lui anche la volpe, il drago, la tigre, la scimmia e l’uccello del paradiso.” Tutto ciò che non rientra nelle categorie “uomo” o “lupo” egli non lo vede nemmeno, non si rende conto che “Harry non consta di due esseri ma di cento, di mille”. Una volta finito di leggere quel libretto, Harry fu molto provato. In primis realizzò che non era disposto ad un ulteriore incontro con sé stesso, sebbene la Dissertazione lo ritenesse necessario per ottenere la salvezza: decise che piuttosto che patire tutte le sofferenze che ciò avrebbe comportato, avrebbe preferito il rasoio: in ogni momento “la porta era aperta”. Trovò molto presto l’occasione per farla finita. Ricevuto un invito a cena da un vecchio amico, Harry decise di accettare. Purtroppo lo fece pur non volendolo: si trattava del solito “conflitto fra i due Harry”, l’uomo e il lupo. La serata si rivelò un disastro, “una piena dichiarazione di fallimento, una partenza senza conforto, senza superiorità, senza umorismo.” Era quella la notte giusta per il rasoio. Tuttavia, prima del suo rientro a casa, dove avrebbe trovato ad aspettarlo la morte tanto temuta, finì in un locale, “All’aquila nera”. Era un posto insolito per Harry, c’era musica, si ballava. Qui conobbe una bella donna, Hermine. Lei sembrava sapere tutto di lui, per questo motivo da quel momento Harry decise di affidarsi a lei, decise di obbedirle. Quell’incontro si rivelò cruciale: grazie a quella donna non era più solo, incompreso, aveva una sorella capace di comprenderlo, di nuovo aveva “un interessamento alla vita”. La verità era che i due si capivano profondamente e l’uno aveva bisogno dell’altra. Tuttavia, se Harry aveva bisogno di Hermine “per imparare a ballare, a ridere, a vivere”, Hermine aveva bisogno di Harry per un altro motivo: il suo scopo era farlo innamorare di lei, per poi fargli eseguire il suo “ultimo ordine”, ovvero voleva che lui la uccidesse. Prima però, Harry avrebbe dovuto imparare a ballare: il pensiero lo spaventava, lui “vecchio eccentrico e timido” doveva iniziare a frequentare quei locali moderni, presentarsi “tra gente estranea come ballerino senza essere capace di ballare.” Grazie all’aiuto di Hermine, imparò. Fu proprio in quest’ambiente che conobbe Pablo, un musicista jazz amico di Hermine, e Maria, anch’essa amica di Hermine, una bella donna cui un giorno chiese di ballare e con cui di lì a poco avrebbe avuto una storia. Fu per merito di queste tre persone che Harry iniziò la “progressiva distruzione“di quella che una volta chiamava personalità: il vecchio signor Haller “travestito magnificamente da idealista e misantropo, da eremita malinconico e profeta accigliato” era ben diverso dal “nuovo Harry in formazione, quel dilettante un po’ comico e timido dei ritrovi da ballo”! La conclusione era la seguente: “il signor Haller ideale era miseramente smontato! Sembrava un dignitario lasciato dai predoni con i calzoni laceri.” Le nuove possibilità di vita e amore che gli si erano aperte, altro non facevano che fargli tornare alla mente la Dissertazione, la sua teoria delle mille anime. Un giorno a tarda notte, alle quattro del mattino, Harry venne introdotto in una sorta di “teatro magico” che si stava svolgendo nei seminterrati di un edificio: qui trovò Hermine vestita da uomo in compagnia dell’amica Maria. All’inizio sembrò contento di vedere le due donne ma, in preda alle droghe, fattegli assumere da Pablo, cominciò ad avere strane allucinazioni e si immaginò perfino Hermine a letto con il musicista Pablo. A quel punto Harry, in preda alla gelosia e al delirio, impugnò un coltello e pugnalò la donna. Hermine morì da lì a poco. Invece di pugnalare la donna, Harry avrebbe dovuto ridere di se stesso e della sua stessa gelosia, senza dare un peso eccessivo ai propri sentimenti. Purtroppo non lo fece. Fu a quel punto che venne condannato alla vita eterna con lo scherno dei grandi del passato come Mozart e Goethe, gli Immortali che lui, grande uomo di cultura, aveva sempre ammirato.  Lo invitarono a non prendersi mai troppo sul serio di fronte alla contraddittorietà della vita e alle disgrazie umane e l’ultima avvisaglia che gli venne rivolta fu proprio questa: “lei deve vivere e imparare a ridere. Deve ascoltare questa maledetta musica della radio della vita, deve rispettare lo spirito che vi si cela e ridere di questo strimpellio. Altro non è richiesto”.

Il bizzarro epilogo del romanzo sottolinea ancora una volta l’inevitabilità delle difficoltà della vita, ma ribadisce anche l’importanza del loro superamento, che avviene grazie alla capacità di saperne ridere, avviene grazie all’umorismo, unica via di salvezza.  È questo il rimedio giusto, la riconciliazione, il tentativo di guarigione, sia per Harry che per tutti noi.

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