Vivere per lavorare o lavorare per vivere?

Quanti lavoratori impiegano più tempo del previsto in ufficio, lavorano troppe ore al giorno, o sacrificano la famiglia e la propria vita sociale per il proprio lavoro?
E quanti responsabili vorrebbero dipendenti così all’interno della propria azienda, devoti agli obiettivi da perseguire e sempre immersi nel proprio lavoro?

Ma questo, che effetto ha sui lavoratori stessi? È davvero un vantaggio per l’azienda?

Che vivere per lavorare sia nocivo alle persone ormai è risaputo e condannato, soprattutto al giorno d’oggi in cui la frenesia dei tempi lavorativi condiziona ormai la vita della maggior parte delle persone. Siamo tutti d’accordo però anche sul fatto che per ottenere i grandi risultati a cui spesso si ambisce sia necessario un duro e costante lavoro, uno sforzo sia fisico sia mentale; e allora qual è il miglior approccio al lavoro per noi stessi e per gli altri intorno a noi? (Leggi anche: come trovare il lavoro migliore per te stesso.)

Il workaholism descrive un comportamento di eccessivo impegno e coinvolgimento della persona nel ruolo lavorativo.  Rappresenta una “dipendenza” dal lavoro che non permette mai al soggetto di staccare la spina dai propri doveri e dalle proprie responsabilità.
Quante volte si vedono manager o lavoratori con incarichi di responsabilità, che anche alla sera al ristorante rispondono al telefono per questioni lavorative? O persone che lavorano di notte e di giorno, senza avere tempo per la famiglia, i figli o la propria vita privata? 
Spesso il workaholism può essere confuso con la dedizione, la responsabilità, e viene visto come positivo dalla società (“è un gran lavoratore!”)… in realtà, ATTENZIONE!
Ha un costo molto elevato per la persona! Non solo provoca stress e problemi psicofisici (cefalee, insonnia, gastrite), ma non bisogna sottovalutare affatto le conseguenze in ambito sociale (scarsi rapporti sociali e relazionali, problemi in famiglia).
Il fatto che il wokaholism provochi stress, è già un indizio della caratteristica principale dei lavoratori di questo tipo: infatti lo stress è dato dal basso livello di piacere che il lavoro dà alla persona.
Il fatto che un individuo abbia una forte motivazione interna a lavorare tanto, non vuol dire che il lavoro gli dia soddisfazioni o lo faccia stare meglio:
il workaholism è nocivo anche perché toglie tanto al soggetto e gli dà poco indietro.
Questo comporta una ricerca continua di riconoscimenti dai propri colleghi o dal proprio responsabile e un impiego eccessivo di energie per ottenerli, sacrificandole inevitabilmente in altri ambiti della propria vita personale.

Il workaholism non va quindi confuso con l’entusiasmo per il lavoro, che è invece la principale caratteristica dell’engagement.
 
Con engagement intendiamo una condizione in cui il lavoratore sente un forte interesse per il proprio lavoro: questo lo porta non solo a lavorare tanto, ma anche a superare costantemente i suoi standard e quelli dell’azienda. Propositivo, impegnato, che prende l’iniziativa, ha cuore non solo i propri obiettivi ma anche gli obiettivi comuni. Lavora con passione, percepisce il lavoro come appagante e lo affronta con un pieno coinvolgimento personale.
Un lavoratore engaged non dà il proprio tempo e le proprie energie solo al lavoro che svolge, ma anche a sé stesso, crescendo con il proprio lavoro.
Anche se non si accorge del tempo che passa mentre lavora, e per questo spende più ore del previsto in ufficio, non ne soffre né a livello psicofisico né relazionale: infatti mantiene sempre separate e ben in equilibrio la sfera affettiva e quella lavorativa.

A causa delle caratteristiche comuni tra il workaholism e l’engagement (grandi sforzi per il lavoro, concentrazione e dedizione continua alla propria attività), questi  rischiano di essere sovrapposti o confusi. La differenza principale tra i due comportamenti è contenuta nella motivazione che spinge il lavoratore a spendersi tanto: nel caso del workaholism è una motivazione interna e incontrollata, qualcosa di intrinseco nella persona e su cui non ha alcun controllo, per questo dipende molto dalle caratteristiche personali del soggetto (perfezionismo, eccessivo senso del dovere, eccessivo attivismo).
L’engagement invece è guidato da una grande passione per il proprio lavoro, razionale e controllata: i lavoratori engaged sono presenti in maniera piena , consapevole e indipendente.
Visto da questa prospettiva, un comportamento di questo tipo sembra non avere aspetti negativi né per il soggetto né per chi entra in contatto con lui, come colleghi o clienti. In realtà a causa del grande peso che il lavoro ha sul soggetto, comporta il rischio del bornout, cioè di una forma di stress cronico ed esaurimento emotivo che spinge a comportamenti opposti rispetto a quelli abituali. Perciò anche in questo caso è fondamentale l’equilibrio!

Concludendo, PASSIONE.
La passione è la chiave del successo nel proprio lavoro, ed è la passione che garantisce il guadagno che un’azienda ha nell’assunzione di un dipendente, la quantità non sempre è qualità!

Lavorare per vivere non significa solo lavorare il minimo per garantirsi una vita dignitosa, ma anche saper vedere nel proprio lavoro un’occasione per costruire la propria vita.
(Leggi anche: Sapere, saper fare, saper essere!
Vuol dire farci continuamente stimolare da ciò che viviamo e metterci in gioco nelle sfide quotidiane, vedendole come un’opportunità di crescita interiore e di miglioramento.
Lavorare per vivere, perché senza lavoro vivremmo tutti un po’ meno, perché il lavoro nobilita l’uomo e lo rende tale.

E come disse Rita Levi Montalcini:
“Amare il proprio lavoro è la cosa che si avvicina più concretamente alla felicità sulla terra.”

 



Beatrice Cucchi 

Tirocinante presso UNIMPIEGO RIMINI

E-mail: Beatrice.cucchi95@gmail.com

 

<< torna indietro
Credits webit.it